venerdì 31 maggio 2013

Il "digital intellect" di Rheingold

Il titolo scimmiotta, forse in maniera troppa pigra, un concetto importante della storia del pensiero che è quello di general intellect del Marx dei Grundrisse. Tuttavia, quello che Howard Rheingold, l'inventore dell'espressione 'comunità virtuale', mette a punto nel suo nuovo libro (Perché la rete ci rende intelligenti, Milano, Cortina 2013, XIV-416) è il ruolo cruciale svolto dall'intelligenza digitale nell'epoca di Internet e dei social media. Meglio: l'obiettivo dell'autore statunitense è di redigere un prontuario per favorire la sopravvivenza e l'alfabetizzazione degli internauti. La domanda di partenza è la seguente: le tecnologie informatiche sono buone o cattive? Risposta: dipende da come le usiamo e dalla capacità di  impiegarle per il miglioramento personale e collettivo. L'intervista di Ernesto Assante su repubblica.it restituisce il profilo di un saggista che si inserisce nell'ambito della ricerca cognitiva e massmediatica dei nostri tempi moderni e che, dunque, tratta l'intelligenza digitale come la versione più sviluppata di quella "mente estesa" cara ai filosofi della mente cosiddetti esternalisti. A coloro cioè che intendono la mente come non riducibile all'epifenomeno del cervello ma, oggi più che mai, necessariamente collegata col mondo tutt'attorno, fatto di dispositivi tecnico-simbolici, pc, iPad, smartphone. Secondo le diffuse teorie di Dennett e Clark, per l'intelligenza umana non è sufficiente il circuito fisiologico delle sinapsi, bensì occorrono strumenti provenienti dal mondo esterno, vere e proprie appendici dell'intelletto, niente affatto superflue ma prerogative ormai sempre più indispensabili per la performance mentale. Si legge sul pezzo de la Repubblica: 
L'obbiettivo è quello di rendere il lettore "intelligente a misura di Rete", ovvero una persona "net smart", in grado di espandere la propria intelligenza con un uso accorto di Internet.
Dunque, knoweldge fortissamente knoweldge. Il "sapere", più o meno specialistico, diventa la premessa di ogni condotta nell'era del lavoro cognitivo, degli affetti nati su Facebook e delle chiacchiere dette su Twitter. Il margine positivo sicuramente è quello di un utilizzo "politico" del "digital intellect" e non quello di una sua vuota "estetizzazione", come direbbe il Benjamin dell'Opera d'arte. Fra i rischi, invece, quello di assegnare a questo sapere il senso spersonalizzante e patologico di un feticcio che tutto comprende e tutto spiega, in maniera a-critica, dunque, a-politica.

Angelo Nizza 

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